La sindrome di burnout – o di esaurimento da lavoro – è l’esito di una continua sollecitazione allo stress sul posto di lavoro che porta a un logorio psico-fisico ed emotivo.
Le prime manifestazioni di burnout furono riscontrate all’inizio degli Anni ’70, mettendo in evidenza come questo tipo di patologia colpisse le cosiddette professioni d’aiuto o “helping profession” ma anche coloro che, pur avendo obiettivi lavorativi diversi dall’assistenza, entravano continuamente in contatto con persone che vivevano stati di disagio o sofferenza, come medici, infermieri, poliziotti, vigili del fuoco, assistenti sociali, caregiver. Oggi, è ormai opinione comune, che il burnout possa essere associato a qualsiasi contesto lavorativo con alte e pressanti condizioni di stress, come ad esempio posizioni di grande responsabilità lavorativa. Tra uomini e donne, sarebbero queste ultime le più esposte al rischio di esaurimento da lavoro.
La psichiatra americana Christina Maslach, nel 1975, ha definito il burnout come “una perdita di interesse verso le persone con cui si svolge la propria attività (pazienti, assistiti, clienti, utenti, ecc), una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in persone che, per professione, sono a contatto e si prendono cura degli altri”.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il burnout indica di fatto un “fenomeno occupazionale”, una “sindrome” che è il risultato di condizione di stress cronico, sul luogo di lavoro, non bene gestita. Questa è la nuova definizione inserita nella nuova revisione (l’11esima per la precisione) dell’International Classification of Disease (Icd) – la tabella globale che racchiude tutte le patologie e le condizioni di salute, che fanno riferimento ai “problemi associati alla sfera lavorativa e alla mancanza di occupazione”.
L’Oms ha fornito un elenco di sintomi per riconoscere e diagnosticare questa sindrome da burnout. Il problema si manifesta su tre livelli: si parte con una sensazione di depauperamento delle energie o di esaurimento, che sfocia in un aumento della distanza mentale dal proprio lavoro oppure nella presenza di sensazioni di negativismo o cinismo sul proprio impiego. Infine, c’è una diminuita efficacia lavorativa.
Il coach Roberto D’Incau, esperto di Diversity & Inclusion e fondatore della società di consulenza HR Lang&Partners, ha proposto una lista di sintomi del burnout, più dettagliata: sentirsi sempre stanchi, sin dalla mattina appena svegli, e non riuscire a dormire; vivere tutto con molta ansia; sentirsi demotivati, senza stimoli, con la sensazione che non si riesce a dare il meglio, o costantemente sottovalutati o ostracizzati; non avere tempo per fare le cose, comprese le piccole abitudini quotidiane, e sentirsi schiacciati dagli impegni; avere malattie psicosomatiche.
Quando le persone iniziano ad avere questo tipo di problemi sul lavoro si assentano, commettono errori e diventano distratte. Può capitare che diventino anche aggressive con chi in genere vanno d’accordo.
Le cause alla base del burnout, in generale, possono essere molteplici, le principali riguardano:
aumento di responsabilità senza la giusta compensazione;
frequenti conflitti nella programmazione del lavoro o interruzioni;
cambiamenti organizzativi o cambiamento di mansioni;
termini e scadenze irrealistici;
programmi che cambiano spesso;
difficili interazioni con colleghi o clienti (rabbia, invidie…);
per chi fa lavori manuali l’esposizione alle intemperie e il sollevamento di carichi pesanti.
E non solo, la mancanza di coinvolgimento del lavoratore nelle decisioni che riguardano il suo ambito lavorativo è un serio fattore di rischio, perché fa vivere le cose come imposte. Ma anche le aspettative poco certe possono causare il burnout: un’ambiguità di ruolo, dettata da scarse informazioni sulla posizione, o un conflitto di ruolo, che nasce di fronte a richieste ritenute incompatibili con il ruolo professionale o un sovraccarico oltre le proprie responsabilità. In generale è il non sentirsi motivati a essere una delle cose cui prestare più attenzione. Un burnout sottovalutato e prolungato secondo gli esperti può diventare un vero problema di salute, una malattia cronica.
Inoltre si è notato che esistono alcuni fattori che incidono su questa sindrome: l’età – nei primi anni lavorativi più accadere più facilmente -, il sesso – le donne sono più soggette rispetto agli uomini -, e la presenza o meno di un compagno al proprio fianco – i single sono più a rischio -.
Nell’evoluzione della sindrome del burnout è possibile distinguere 4 fasi: entusiasmo idealistico; stagnazione; frustrazione profonda; apatia.
La prima fase del burnout, l’entusiasmo: impegno, entusiasmo e idealismo sono spesso condizioni importanti per avere successo nel proprio lavoro. Tuttavia l’eccessivo dispendio di energie e l’ossessiva identificazione con il proprio lavoro può spingere verso lo sviluppo del burnout. Superare i limiti fisici e mentali e trascurare le pause tanto necessarie costringe il corpo a trovare il “suo” modo di mettersi in pausa.
La seconda fase del burnout, la stagnazione: verificati i primi fallimenti a fronte di uno sforzo eccessivo di energie, nel lavoratore a poco a poco l’euforia lascia posto alla delusione che diventa sempre più grande via via che ci si allontana dai risultati sperati. La reazione a ciò sono paure inconsce, tensione, irritabilità ed esaurimento.
La terza fase del burnout, la frustrazione: se i successi non vengono raggiunti nonostante il maggior dispendio di energie, i limiti vengono fuori. Questo porta a una profonda sensazione di frustrazione. La depressione può manifestarsi sotto diverse forme, tra queste: autostima ridotta, tendenza a piangere, senso di inefficienza, autocommiserazione, mancanza di umorismo, vaga ansia e nervosismo, sino a pensieri suicidi.
La quarta fase del burnout, l’apatia: l’ultimo step di questo percorso verso “la rassegnazione interiore” del lavoratore comporta l’abbandono dell’impegno per obiettivi: il lavoro è ridotto all’essenziale, le modifiche vengono evitate ei problemi vengono ignorati, si instaura un’inconscia autoprotezione che tuttavia ha un impatto negativo sull’autostima.
Il primo test per misurare il burnout è noto come il Maslach Burnout Inventory (MBI) o Scala di Maslach. Sviluppato nel 1981 da Christina Maslach insieme alla sua collega Susan Jackson, il MBI è un questionario psicologico composto da 22 item che misurano 3 dimensioni indipendenti della sindrome di burnout, ciascuna individuata da una specifica scala: esaurimento emotivo, che esamina la sensazione di essere inaridito emotivamente ed esaurito dal proprio lavoro (9 item); depersonalizzazione, che misura una risposta fredda ed impersonale nei confronti degli utenti del proprio servizio 85 item); realizzazione personale, che valuta la sensazione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo nel lavorare con gli altri (8 item). Il Maslach Burnout Inventory fu pensato originariamente per quelle categorie di lavoratori impegnati nei Servizi Socio-Sanitari (MBI-HSS Maslach Burnout Inventory Human Services Survey) e nei Servizi Socio-Educativi (MBI-ES Maslach Burnout Inventory Educators Survey), successivamente venne esteso tutte alle altre fasce di lavoratori che in costante contatto con il pubblico o con persone in stato di bisogno. Una evoluzione della scala MBI è l’Organizational Checkup System (OCS) di Michael Leiter e Christina Maslach. L’OCS rappresenta lo strumento per misurare il burnout più aggiornato.
I costi personali e organizzativi del burnout hanno portato a proposte per diverse strategie di intervento. Come evidenziato in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica World Psychatry, alcuni cercano di trattare il burnout dopo che si è verificato, mentre altri si concentrano su come prevenire il burnout promuovendo il coinvolgimento. L’intervento può avvenire a livello dell’individuo, del gruppo di lavoro o di un’intera organizzazione. In generale, l’enfasi principale è stata sulle strategie individuali, piuttosto che su quelle sociali o organizzative, nonostante l’evidenza della ricerca sul ruolo primario dei fattori situazionali, come sottolinea anche Christina Maslach in un’intervista all’American Psychological Association che fa una similitudine molto eloquente per spiegare come il burnout non sia un problema individuale ma di tutta l’organizzazione e come tale va gestito. La Maslach dice: “Il burnout è come il canarino nella miniera di carbone. Il canarino va giù, se il canarino ha problemi a operare nella miniera di carbone, non è che qualcosa non va con il canarino, che è un uccellino abbastanza tosto. È che ci sono fumi tossici e questo è un segnale che qualcosa deve essere aggiustato prima che tutti gli altri entrino nella miniera”. Ad ogni modo, le raccomandazioni più comuni in un approccio alla sindrome di burnout di tipo individuale includono: cambiare i modelli di lavoro (es. lavorare di meno, fare più pause, evitare il lavoro straordinario, conciliare il lavoro con il resto della propria vita); sviluppare capacità di coping (es. ristrutturazione cognitiva, risoluzione dei conflitti, gestione del tempo); ottenere supporto sociale (sia dai colleghi che dai familiari); utilizzare strategie di rilassamento; promuovere un buono stato di salute e la forma fisica; sviluppare una migliore autocomprensione (attraverso varie tecniche di autoanalisi, consulenza o terapia).
Il crescente utilizzo di dispositivi digitali per lavorare al di fuori del luogo di lavoro, amplifica il fatto di essere contattabili 24 ore su 24, 7 giorni su 7: si sta diffondendo così l’abitudine di completare le attività lavorative al di fuori dell’orario di lavoro tradizionale. L’uso eccessivo dei dispositivi digitali per lavoro è la causa principale del burnout digitale, con molti dipendenti incerti su quando poter spegnere.
A testimoniarlo alcuni studi condotti dalla University of British Columbia e dalla Colorado State University, che hanno rivelato come i lavoratori che controllano la posta elettronica solo tre volte al giorno sperimentano molto meno stress rispetto a coloro che devono rispondere alle email di lavoro in ore non lavorative.
Oltre all’aumento dello stress, il burnout digitale causa anche problemi di insonnia e deteriora le relazioni private, e si traduce in una diminuzione dell’efficacia organizzativa sul posto di lavoro.
Per contrastare il burnout digitale è fondamentale definire chiaramente i confini tra vita privata e professionale, e ridurre l’onere del lavoro e il sovraccarico informativo.
È proprio il burnout digitale quello che, durante la rivoluzione nel mondo del lavoro scatenata dalle misure di contrasto alla diffusione della pandemia, ha registrato un più alto livello di diffusione. Con lo smart working forzato, infatti, oltre alla normale gestione delle attività connesse al proprio ruolo, le persone si sono trovate a svolgere ogni aspetto del lavoro in modalità digitale, dalle riunioni, ai confronti di routine coi colleghi, ai rapporti coi clienti. Tutto ciò ha generato una sovraesposizione alla tecnologia che in taluni casi è sfociata proprio nel burnout digitale. Secondo lo studio condotto dalla piattaforma internazionale per la ricerca di lavoro Indeed, tra il 2020 e il 2021 il burnout è peggiorato: più della metà (52%) degli intervistati ha affermato di sentirsi esausta e più di due terzi (67%) ritiene che la sensazione sia peggiorata nel corso della pandemia, con i lavoratori da remoto che hanno evidenziato maggiori probabilità di dire che il burnout è peggiorato nel corso della pandemia (38%) rispetto a coloro che lavorano in loco (28%). Esigenza di svolgere ogni tipo di attività in modalità digitale e incapacità a scollegarsi (non a caso nei contratti di lavoro agile è ribadito il “diritto alla disconnessione”, ossia l’individuazione di una fascia oraria in cui i lavoratori non sono tenuti ad essere reperibili per motivi di lavoro) sono dunque alla base di questo accumulo di stress che alla lunga può generare burnout.
Indeed si spinge anche oltre e indica tre comportamenti virtuosi che i leader dovrebbero adottare per cercare di diminuire il rischio burnout da smart working: creare più flessibilità nella pianificazione e incoraggia il tempo libero, e poiché i dipendenti tendono a conformarsi alla cultura aziendale è importante che i manager si prendano delle ferie e incoraggino i dipendenti a fare lo stesso; sottolineare l’importanza dell’equilibrio tra lavoro e vita privata incoraggiando i dipendenti a disattivare le comunicazioni di lavoro durante le ore di riposo, ferie e vacanze; rivedere le tipologie di fringe benefit, azioni e strumenti per sviluppare il benessere organizzativo risultato oggi molto apprezzati.
|