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25-02-2022/06:39:00 Visitato: 914
Il divieto di trasferimento del lavoratore caregiver

Il divieto di trasferimento del lavoratore caregiver

Le garanzie offerte dall’ordinamento al lavoratore dipendente che assiste il familiare disabile anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza

Per lavoratori c.d. “caregiver” intendiamo i lavoratori dipendenti, pubblici o privati che prestano assistenza ad una persona con handicap in situazione di gravità che sia coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.

L’art. 33 comma 5 della Legge n. 104/1992 prevede un doppio ventaglio di tutele nei confronti di tale categoria di lavoratori, nello specifico:

    Il diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere (non ci troviamo di fronte a un diritto assoluto e illimitato ma che al contrario va bilanciato con le esigenze e necessità aziendali, come testimonia l’inciso “ove possibile”);

    Il diritto a non essere trasferito in una sede diversa senza il proprio consenso.

Mediante quest’ultimo la norma limita il potere dispositivo ed organizzativo del datore di lavoro col fine di tutelare il familiare con handicap grave.

La giurisprudenza dominante (cfr. Cassazione, 17 dicembre 2020, n. 29009, Cass., 12 ottobre 2017, n. 24015) ha specificato che il diritto del dipendente che assiste con continuità un parente disabile di non essere trasferito senza il suo consenso non può subire limitazioni, anche se lo spostamento venisse attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, a meno che il datore di lavoro non dimostri l’esistenza di specifiche esigenze tecnico produttive od organizzative, effettive e insuscettibili di essere diversamente soddisfatte.

La Corte di Cassazione, nella recente sentenza n. 29009 del 17 dicembre 2020, ha fornito chiarimenti in tema di trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile.

Nel caso di specie un lavoratore agiva in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del suo trasferimento presso una diversa sede aziendale per violazione dell’art. 33 comma 5 della Legge n. 104/1992, in quanto incaricato di prestare assistenza al familiare disabile.

Il Tribunale di Napoli dichiarava illegittimo il trasferimento ordinando la riammissione del dipendente in servizio; la Corte d’Appello, in riforma della pronuncia di primo grado, accogliendo la domanda del datore di lavoro, riteneva viceversa il trasferimento legittimo nonostante il rifiuto espresso dal dipendente, essendo la nuova sede più vicina al comune di residenza del familiare.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione avverso tale pronuncia.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del dipendente ricordando che in precedenti pronunce (cf. Cassazione, 7 giugno 2012, n. 9201) è stato ritenuto “vietato il trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile anche quando il grado di disabilità dell’assistito non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro non provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte”.

Il diritto del lavoratore a non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede sorge, infatti, al momento della presentazione della domanda volta ad ottenere i benefici della Legge 104/1992, mentre non è importante l’emanazione del provvedimento di autorizzazione dell’INPS.

La Corte evidenzia, inoltre, che il trasferimento non possa realizzarsi senza il consenso del dipendente: “tale consenso risulta imprescindibile e come tale necessario ai fini della legittimità del trasferimento (…)”.

Il rifiuto espresso dal lavoratore renderebbe, pertanto, irrilevante la maggiore vicinanza tra la nuova sede di lavoro e il luogo di residenza dell’assistito.

La Corte di Cassazione si è pronunciata in un’altra occasione, mediante la sentenza n. 24015 del 12 ottobre 2017, sulla legittimità del trasferimento di un lavoratore “caregiver” specificando che “il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente opera ogni volta che muti definitivamente il luogo geografico di esecuzione della prestazione anche se lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva”.

La Corte evidenzia che il divieto di trasferimento in esame deve essere interpretato in termini costituzionalmente orientati, facendo riferimento alla Carta di Nizza che riconosce il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure volte a garantire autonomia e inserimento sociale.

La tutela della persona con disabilità, come osserva la Corte di Cassazione, si attua anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro di cui è parte il familiare, “in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza”.

L’unico limite individuato dalla Corte al divieto di trasferimento del lavoratore “caregiver” si verifica quando la parte datoriale dimostri l’esistenza di specifiche esigenze tecnico-produttive ed organizzative, insuscettibili di essere soddisfatte in altro modo e tali da legittimare l’adozione del provvedimento.

Il trasferimento legittima il rifiuto del dipendente “di assumere servizio nella sede diversa cui sia stato destinato ove il trasferimento sia idoneo a pregiudicare gli interessi di assistenza familiare del dipendente e ove il datore di lavoro non provi che il trasferimento è stato disposto per effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.

Mediante l’art. 33 comma 5 della Legge n. 104/92 il legislatore tutela sia i lavoratori “caregiver”, prevedendo il divieto di trasferimento degli stessi in una sede diversa senza il loro consenso, sia i familiari disabili affinché venga soddisfatto il loro diritto a mantenere immutate condizioni di assistenza.

Tale tutela si realizza mediante una limitazione del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro; infatti, pur in presenza dei requisiti previsti dall’art. 2103 c.c., lo stesso non può disporre il trasferimento del dipendente “caregiver” senza il suo consenso.

Nell’operare il necessario bilanciamento tra interessi e diritti della parte datoriale e quelli del dipendente, entrambi aventi rilievo costituzionale, occorrerà salvaguardare e valorizzare le esigenze di cura e assistenza del familiare del lavoratore, evitando che le stesse possano venire danneggiate dall’ipotetico trasferimento.

La giurisprudenza ammette la possibilità per il datore di lavoro di dimostrare in giudizio l’esistenza di specifiche ed effettive esigenze tecniche, organizzative e produttive, insuscettibili di essere diversamente soddisfatte e tali da legittimare il provvedimento.

Si tratta, nei fatti, di una probatio diabolica della quale le aziende devono essere consapevoli sin dal momento in cui si trovano a dover valutare se esistano o meno le condizioni per operare il trasferimento.

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