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Il lavoratore che abbia subito un infarto può chiedere il risarcimento del danno biologico a carico del datore di lavoro?

Su tale aspetto è recentemente intervenuta la Cassazione (sentenza n. n. 12339 del 5 novembre 1999) enunciando un principio di estrema importanza. La Suprema Corte è stata chiamata ad occuparsi della controversia promossa da un lavoratore colpito dapprima da depressione, e poi da un infarto al miocardio, di gravità tale da determinare un’invalidità di grado elevato. Tali danni alla salute erano stati ritenuti imputabili, dal Tribunale in precedenza occupatosi del caso, in parte al comportamento del datore di lavoro, che per lungo tempo aveva sottratto al lavoratore i compiti di sua pertinenza, così determinando una situazione di stress sfociata dapprima in una sindrome depressiva e poi nell’infarto, ed in parte ad una preesistente patologia coronarica, che poteva essere considerata una delle cause dell’infarto. Pertanto, la responsabilità del danno, ed il conseguentemente risarcimento, erano stati posti solo in parte a carico della società datrice di lavoro.

Accogliendo il ricorso del dipendente, la Cassazione, ha invece posto interamente a carico della società la responsabilità del danno subito dal dipendente. Ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, la comparazione del grado di incidenza di più cause nel verificarsi di un danno può essere effettuata solo in presenza di più comportamenti umani colpevoli, ma non quando una delle concause sia, come nell’ipotesi esaminata, di origine naturale. Ciò significa, in sostanza, che il datore di lavoro può essere esonerato, in parte, dalla responsabilità a lui imputabile, solo nel caso in cui dimostri che il danno è stato determinato anche da un inadempimento ai propri obblighi del lavoratore, o di un altro soggetto, mentre non può invocare a giustificazione del danno subito dal lavoratore il fatto che lo stesso fosse precedentemente malato, o che comunque a determinare il danno abbia concorso anche qualche evento naturale ed imprevedibile.

Con altra sentenza (n. 1307 del 5/2/2000), la suprema Corte ha esaminato il caso di un lavoratore con qualifica di quadro, che aveva svolto per circa sette anni le mansioni di capo ufficio addetto alla organizzazione delle esposizioni di un Ente Fiera e, nel marzo 1986, aveva subito un infarto cardiaco. Conseguentemente si era rivolto al Pretore di Bari per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, sostenendo di essere stato costretto ad un’estenuante attività lavorativa con impegno medio settimanale di 60 ore a causa della inadeguatezza dell’organico e della complessità dei compiti affidatigli.

La domanda veniva rigettata dal Pretore e dal Tribunale. La sentenza del Tribunale era stata cassata dalla Suprema corte, sulla base del seguente principio: il potere imprenditoriale, volto alla massimizzazione della produzione, incontra un imprescindibile limite nella necessità di non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e nel far sì che nell’attività di collaborazione richiesta ai dipendenti venga predisposta una serie di misure, oltre quelle legali, che appaiono utili a impedire l’insorgere o l’ulteriore deteriorarsi di situazioni patologiche idonee a causare effetti dannosi alla salute del lavoratore (art. 41 c. 2 Cost. e art. 2087 c.c.). Conseguentemente, la Corte ha rinviato la causa al Tribunale di rinvio.

Il Giudice del rinvio ha successivamente accolto la domanda del lavoratore, ritenendo provata la sussistenza delle condizioni di superlavoro in cui aveva operato il dipendente nell’indifferenza del datore di lavoro. Il giudice del rinvio, inoltre, sulla base della consulenza tecnica che già era stata disposta dal Pretore, ha ritenuto che l’infarto subito dal lavoratore fosse da attribuire all’attività lavorativa, nonostante la sussistenza di altri fattori di rischio, quali la familiarità ipertensiva, il fumo di 15 sigarette al giorno e la vita sedentaria. Conseguentemente, il datore di lavoro è stato condannato a risarcire il danno, quantificato in L. 300.000.000, oltre interessi e rivalutazione.

La questione è infine tornata all’esame della Suprema corte a seguito di ricorso del datore di lavoro. L’impugnazione è stata rigettato dalla sentenza sopra citata, che ha definitivamente posto fine alla controversia. In particolare, è stato ritenuto che il datore di lavoro, per non compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore, deve attare tutte misure necessarie, compreso l’adeguamento dell’organico. L’adozione di tali misure, comprese appunto quelle intese ad evitare eccessività di impegno da parte del lavoratore, resta necessaria anche nel caso in cui il lavoratore accetti di prestare lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. monte ore contrattuale massimo, o rinunci a un idoneo periodo feriale. Né ha efficacia esimente per il datore di lavoro, che abbia omesso le misure atte ad impedire l’evento lesivo, l’eventuale concorso di colpa del lavoratore: il datore di lavoro è esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.

Infine la Corte ha precisato che spetta al lavoratore fornire la prova della violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità psico-fisica del lavoratore. Al datore di lavoro spetta invece l’onere di provare che l’evento lesivo dipenda da un fatto a lui non imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza in relazione al procediemnto lavorativo e alle direttive impartite.

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