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 DETTAGLIO DOCUMENTO   I licenziamenti nel decreto attuativo del Jobs Act: questioni formali e sostanziali
APPROFONDIMENTI 15-01-2015
I licenziamenti nel decreto attuativo del Jobs Act: questioni formali e sostanziali

Questa legge, all’art. 7, lett. c) delegava il Governo a riformare la disciplina dei licenziamenti nel rispetto del seguente criterio direttivo: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.

La delega conteneva un riferimento di tipo soggettivo, relativo ai destinatari della nuova regolamentazione (individuati nei neoassunti), ed uno di tipo oggettivo, attinente all’introduzione delle nuove tutele in caso di vizio dell’atto di risoluzione del rapporto.

Nei confronti dei nuovi assunti, ai quali avrebbe dovuto trovare applicazione la tutela prevista dall’art. 18 St. Lav., la linea fatta propria dall’esecutivo, nella prosecuzione del cammino già avviato dalla legge n. 92/2012, è diretta verso la progressiva eliminazione della reintegrazione, introducendo un sistema di tutela economica, crescente in base all’anzianità del lavoratore.

La riforma attuata dallo schema del decreto in esame, infatti, contiene alcuni elementi ripresi integralmente dall’innovazione del 2012, tra cui spicca il regime della revoca delle dimissioni, prevista, dall’art. 5 del decreto, il cui testo riprende integralmente quello contenuto nel comma 10 dell’attuale art. 18 St. lav.

A differenza di quanto operato nel 2012, però, il legislatore ha inteso introdurre il nuovo sistema di tutela ponendo come discrimine, tra la nuova e la vecchia disciplina, non la data dell’intimato recesso, bensì quella dell’assunzione, con contratto a tempo indeterminato, del lavoratore.

Questa scelta è destinata ad introdurre una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori, disparità che, diversamente da quanto accaduto fino ad ora, non dipende dalla consistenza numerica aziendale, dalla natura del datore di lavoro o dalla tipologia della prestazione dedotta in contratto, bensì da una condizione soggettiva del lavoratore, coincidente con la data di assunzione.

Di qui, come già è stato rilevato (si veda l’intervista al Prof. Umberto Romagnoli, su Il Fatto Quotidiano del 29 dicembre 2014), inevitabili saranno le disparità di trattamento che verranno a determinarsi e, di conseguenza, le eccezioni di costituzionalità, per violazione dell’art. 3 Cost., che saranno proposte ai Giudici investiti sull’impugnazione dei licenziamenti.

Accadrà, infatti, che due licenziamenti, intimati nello stesso momento e nell’ambito della medesima unità produttiva, affetti dal medesimo vizio, saranno tutelati in base a due diversi regimi, qualora uno dei due lavoratori sia stato assunto dopo l’entrata in vigore del decreto in commento.

 

Sommario

• L’ambito soggettivo della riforma (art. 1)

• Il sistema sanzionatorio nelle piccole Imprese e nelle Organizzazioni di Tendenza (art. 9)

• L’ambito oggettivo della riforma

• L’indennità sostitutiva della reintegrazione

• Il computo dell’anzianità lavorativa (artt. 7 e 8)

• L’offerta di conciliazione (art. 6)

• Il licenziamento collettivo (art. 10)

• Il contratto di ricollocazione (art. 11)

• Il Rito applicabile (art. 12)

 

L’ambito soggettivo della riforma (art. 1)

Diversamente da quanto voluto dalla delega, il nuovo sistema di tutele, così come contenuto nella bozza di decreto, non trova applicazione solo nei confronti dei lavoratori assunti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.

Infatti, l’art. 1 del testo delegato ne prevede l’estensione anche nei confronti di quei lavoratori che, seppure assunti precedentemente all’entrata in vigore del decreto, siano dipendenti di datori di lavoro che abbiano superato il requisito dimensionale, di cui ai commi 9 e 10 dell’art. 18 St.Lav., successivamente alla medesima data.

Simile previsione è dettata dall’intento, sotteso alla riforma, di incentivare le assunzioni evitando che l’eventuale superamento della soglia di applicabilità dell’art. 18 St. Lav. possa produrre l’applicazione della relativa tutela reintegratoria.

Il decreto delegato, così concepito, pare eccedere il dettato della delega, il cui ambito soggettivo non pareva consentire l’estensione della riforma ai lavoratori già in forza.

In tal modo, nei fatti, viene a determinarsi un sistema tripartito di tutela basato:

• sull’art. 18, L. n. 300/1970, che trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro che ne siano già destinatari all’atto di entrata in vigore del decreto (che, oggi, può definirsi tutela forte);

• - sul decreto in commento, che trova applicazione: sia nei confronti dei lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore del decreto medesimo, dipendenti da datori di lavoro nei cui confronti avrebbe dovuto trovare applicazione la disposizione statutaria; sia nei confronti dei datori di lavoro che abbiano un numero di lavoratori eccedenti la soglia statutaria a seguito delle assunzioni avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto (che, oggi, può definirsi tutela mediana);

• sull’art. 8, L. n. 604/1966 (sempre individuata nella tutela debole), sul cui contenuto è intervenuto l’art. 9 del decreto (v. infra).

L’evidenziato eccesso di delega, però, pare caratterizzare l’articolato in esame anche in altri ambiti e, precisamente, laddove:

• ha inteso intervenire sul sistema di tutela esclusivamente obbligatoria, di cui all’art. 8, L. n. 604/1966 (art. 9, comma 1);

• ha ritenuto di applicare il nuovo sistema di tutele “Ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto …” (art. 9, comma 2).

 

Il sistema sanzionatorio nelle piccole Imprese e nelle Organizzazioni di Tendenza (art. 9)

Relativamente a simili aspetti, non risulta chiaro se l’innovazione riguardi solamente i nuovi assunti o se, invece, l’apparato sanzionatorio sia applicabile ai tutti i lavoratori destinatari di quell’ambito di tutela.

Occorre notare, sul punto, che il riferimento alle Piccole Imprese ed alle Organizzazioni di Tendenza non è contenuto nell’art. 1 del decreto, relativo all’ambito soggettivo di applicazione della disposizione, bensì nell’art. 9, costituendo, pertanto, norma a se stante, apparentemente svincolata dalla sfera soggettiva di applicabilità del decreto (riservata ad i nuovi assunti).

Affinché il nuovo regime sanzionatorio possa essere ritenuto conforme alla legge delega è necessario che il suo ambito di applicazione sia limitato, comunque, ai nuovi assunti (successivamente all’entrata in vigore del decreto), i quali, per volontà della delega, devono essere ritenuti gli unici destinatari della riforma. Diversamente, il testo si potrebbe essere passibile di una eccezione di incostituzionalità per violazione dell’art. 76 Cost., dato che, si vedrà, per alcuni versi, il decreto finisce per determinare effetti diametralmente opposti a quelli voluti dalla legge delega.

a) Le piccole Imprese

Assai discutibile, in quanto apparentemente escluso dalla legge delega, si palesa la norma del decreto riservata ai datori di lavoro c.d. sotto soglia, con un numero di dipendenti tale da escludere l’applicazione dell’art. 18 St. Lav., destinatari, pertanto, del regime sanzionatorio di cui all’art. 8, L. n. 604/1966.

Ai sensi di questa norma, come è noto, al lavoratore, in conseguenza dell’illegittimo recesso. è riconosciuto il diritto alla riassunzione o, in alternativa (a scelta del datore di lavoro), al risarcimento del danno che, nella quantificazione ordinaria, è compreso fra 2,5 a 6 mensilità.

L’art. 9 prevede che i licenziamenti intimati dai predetti datori di lavoro, qualora dichiarati illegittimi, possano essere tutelati con il riconoscimento di una indennità, dimezzata rispetto a quella contemplata dagli artt. 3, comma 1; 4, comma 1 e art. 6 comma 1 del decreto ed in ogni caso non superiore a n. 6 mensilità (resta intesa la tutela reintegratoria, ex art. 2 del decreto e 18, comma 1 St. Lav., in caso di licenziamento verbale, discriminatorio, ritorsivo e nullo).

L’impatto dell’innovazione (indipendentemente dai soggetti che ne saranno considerati i destinatari) riguarda due aspetti: il primo, le modalità di determinazione del risarcimento del danno; il secondo, la tutela rispetto ai licenziamenti considerati inefficaci.

Per quanto attiene alla prima questione si consideri che in base alla riforma, l’entità del risarcimento del danno potrà oscillare tra una e sei mensilità e, pertanto, il minimale di tutela potrà essere inferiore rispetto all’attuale sistema.

Una mensilità sarà l’ammontare minimo dell’indennità spettante in ipotesi di violazione connessa alla forma ed al procedimento presupposto del recesso (di cui all’art. 2, L. n. 604/1966 ed all’art. 7, L. n. 300/1970), dal momento che, in simili ipotesi, l’ordinaria entità del ristoro, così come previsto dall’art. 4 del decreto, ammonta a due mensilità.

Due mensilità, invece, costituiranno l’entità minima dell’indennità dovuta in caso di illegittimo licenziamento, tutelato, in via ordinaria, dall’art. 3 dello schema di decreto, con il riconoscimento di quattro mensilità.

In ogni caso, la base indennitaria è commisurata a 0,5 mensilità, per ogni anno di anzianità, per le violazione formali e ad una mensilità, per ogni anno di anzianità, per gli altri casi di illegittimità del licenziamento.

Il nuovo impianto sanzionatorio pone un dubbio interpretativo rispetto alla possibile applicazione della maggiorazione indennitaria, prevista dall’ultimo cpv. dell’art. 8, L. n. 604/1966, ai sensi del quale “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”.

Da un lato, infatti, si può ritenere che la limitazione, nel massimo, dell’indennità, così come voluta dal decreto in commento, costituisca una nuova definizione dell’entità del ristoro conseguente all’illegittimo licenziamento. Dall’altro, invece, si può interpretare il suddetto limite alla stregua di quanto già disposto dall’art. 8, L. n. 604/1966 e, cioè che il numero di sei mensilità rappresenti la tutela massima ordinaria, derogata in presenza di particolari condizioni soggettive del lavoratore (l’anzianità lavorativa) e della consistenza numerica dell’azienda.

In questo senso, pertanto, l’assenza di una esplicita abrogazione della disciplina contenuta nell’art. 8, L. n. 604/1966, porta a ritenere che la maggiorazione ivi contemplata venga a porsi come disciplina speciale derogatoria di quella ordinaria e, pertanto, non investita dalla modifica in commento.

Diversamente, anche sul punto, rilevanti appaiono i dubbi di costituzionalità del decreto delegato (qualora confermativo di quello che ad oggi è solo uno schema). La delega, infatti, non pare avere ad oggetto una rideterminazione della indennità in sede di regime obbligatorio di tutela (quello, per intenderci, estraneo al disposto dell’art. 18 St. Lav.).

Per quanto riguarda il secondo aspetto, relativo all’impatto dell’innovazione sulla tutela del licenziamento inefficace, valgano le seguenti considerazioni.

Ai sensi del decreto in commento, la violazione dell’art. 2, comma 2, L. n. 604/1966 (come già previsto dall’art. 18, comma 6, St. Lav., nel testo modificato dalla L. n. 92/2012), costituisce una ipotesi di inefficiacia-illegittimità, sanzionata, come tale, con il riconoscimento di una indennità che, come detto, nell’ipotesi in esame non può superare, il predetto massimo di sei mensilità.

Simile regime sanzionatorio rappresenta una svolta strutturale rispetto al passato, in quanto riduce a mera illegittimità un vizio incidente sulla stessa esistenza dell’atto risolutivo del rapporto, atto che, per la norma di riferimento (l’art. 2, comma 2, L. n, 604/1966), doveva qualificarsi come tanquam non esset.

L’omessa comunicazione dei motivi era equiparata ad un licenziamento intimato in forma verbale e, come tale incideva sulla idoneità dell’atto alla risoluzione del rapporto di lavoro. La conseguente inefficacia del provvedimento comportava il diritto del lavoratore al ripristino del rapporto di lavoro in base alle ordinarie regole dell’inadempimento civile.

La riforma del 2012, però, ha riguardato solamente l’ambito della c.d. tutela reale, riferendosi solamente ai soggetti destinatari del regime di cui all’art. 18 St. Lav..

A seguito di quella riforma, pertanto, si è creato un effetto paradossale, in base al quale, la sanzione dell’inefficacia-inesistenza dell’atto, dovuta all’omessa comunicazione dei motivi del recesso, ha continuato a trovare applicazione nei confronti dei rapporti assistiti dalla tutela obbligatoria (di cui all’art. 8, L. n. 604/1966).

La riforma in commento, seppure, si ripete, applicabile ai neo assunti (v. supra), è intervenuta su questa inaccettabile discrasia del sistema, equiparando gli effetti del vizio formale in ogni contesto aziendale (anche se la discrasia permane per i lavoratori esclusi dalla riforma, cioè per coloro che al momento dell’entrata in vigore del decreto siano già lavoratori dipendenti presso datori di lavoro estranei all’applicazione dell’art. 18 St. Lav.).

L’art. 9 del decreto, nel quantificare le spettanze indennitarie potenzialmente fruibili dai dipendenti delle c.d. “piccole imprese” (così, testualmente, l’art. 9 del decreto), menziona espressamente l’art. 6, comma 1, del decreto medesimo, il quale ha ad oggetto l’”offerta di conciliazione” (v. infra) che, pertanto, risulta applicabile nei confronti di tutti i licenziamenti nei cui confronti troverà applicazione la riforma in esame (esclusi, pertanto, quelli che restano assoggetti alle tutele dell’art. 18, L. n. 300/1970 e quelli destinatari del regime di cui all’art. 8, L. n. 604/1966).

b) Le Organizzazioni di Tendenza

Alle Organizzazioni di Tendenza trova integrale applicazione il testo del decreto.

L’applicabilità del nuovo regime alle Organizzazione di Tendenza, al pari di quanto osservato per le piccole Imprese, è assai discutibile.

Una simile estensione non può costituire l’esecuzione della legge delega, in quanto, nei fatti, appare contrastante con lo spirito sotteso alla riforma (introdurre il principio generale di monetizzazione del licenziamento) e, pertanto, passibile di incostituzionalità, per violazione dell’art. 76 Cost.

Se l’intento, come evidenziato, era quello di generalizzare la tutela risarcitoria avverso il licenziamento illegittimo, nei confronti di questi soggetti l’effetto è stato opposto a quello preventivato.

La previsione contenuta nel decreto, infatti, ingenera un miglioramento della tutela garantita ai dipendenti illegittimamente licenziati.

Nei confronti di questi lavoratori, infatti, giusto il disposto dell’art. 4, L. n. 108/1990, non trovava applicazione la tutela reintegratoria e, pertanto, gli stessi, fino ad oggi, erano destinatari delle provvidenze di cui all’art. 8, L. n. 604/1966 (per l’interpretazione dell’ambito oggettivo di applicazione della disposizione s vedano Cass. civ., sez. lav., 04-03-2014, n. 4983; Cass. civ., sez. lav., 12-03-2012, n. 3868; Cass. civ., sez. lav., 15-06-2011, n. 13093).

La riforma, pertanto, non solo introduce, seppure in via residuale, la tutela reintegratoria (fino ad oggi inapplicabile), ma garantisce un sistema indennitario più favorevole rispetto a quella attualmente in essere.

L’ambito oggettivo della riforma

a) Il licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale (art. 2)

Nello spirito della riforma, la reintegrazione è intesa come tutela estrema, da applicarsi nel caso di licenziamento verbale, discriminatorio (ritorsivo) o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.

In questa ipotesi, la tutela è quella garantita dall’art. 18, comma 1 St. Lav., e consiste nella reintegrazione e nel diritto ad un indennizzo, commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto maturata tra il giorno del licenziamento e quello della reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative e, comunque non inferiore a n. 5 mensilità, oltre all’integrale ristoro previdenziale.

b) Il licenziamento illegittimo (art. 3)

L’illegittimità del licenziamento, consistente nulla insussistenza del motivo addotto a fondamento del recesso, determina, invece, l’applicazione della reintegrazione, con indennità limitata nel massimo a 12 mensilità (come previsto dall’art. 18, comma 4, St. Lav.), nelle seguenti ipotesi: a) licenziamento disciplinare, solo nel caso in cui sia accertata l’inesistenza del fatto posto a fondamento del recesso; b) risoluzione del rapporto motivata dall’inidoneità fisica o psichica del lavoratore che si rilevi inesistente.

In questo caso (di reintegrazione con indennità ridotta), il ristoro spettante al lavoratore viene determinato detraendo, sia quanto egli ha percepito svolgendo un’altra attività lavorativa, sia quanto egli “avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lett. c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181” (il quale sanziona con la “perdita dello stato di disoccupazione” ... il “rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro a tempo pieno ed indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, nell'ambito dei bacini, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici, stabiliti dalle Regioni”).

Il riferimento al c.d. aliunde percipiendum risulta sensibilmente diverso rispetto a quello operato dall’art. 18, comma 4, St. Lav., ai sensi del quale la riduzione va operata rispetto a “quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”.

Al pari di quanto disposto dalla norma statutaria, invece, il datore di lavoro è tenuto al pagamento dell’intera contribuzione previdenziale.

 

L’ambito di applicazione della reintegrazione, pertanto, si è ulteriormente ristretto, non potendo applicarsi nel caso della c.d. sproporzionalità qualificata, integrata nell’ipotesi in cui, per il medesimo fatto, il contratto collettivo preveda una sanzione disciplinare solamente conservativa.

Resta inteso, però, anche nel regime in commento, affinchè un licenziamento possa essere ritenuto sproporzionato è necessario che sia giuridicamente esistente e rilevante il fatto storico sul quale il medesimo. Il licenziamento, pertanto, sarà condizionato dall’inesistenza del fatto, quando questo risulta inidoneo ad incidere sulla funzionalità del rapporto (in questo senso Trib. Bologna, 15 ottobre 2012 n. 2631, Est. dott. Marchesini).

La tutela da illegittimo recesso, quindi, salvo le deroghe previste, è di stampo esclusivamente indennitario, parametrato in termini certi ed oggettivi, in base all’anzianità del lavoratore.

La modalità con le quali viene quantificata la predetta indennità è sensibilmente diversa dalla previsione di cui all’art. 18, comma 5, St. Lav. (nella quale è parametrata “in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”).

Il decreto in esame, invece, all’art. 3, comma 1, prevede che l’indennità debba essere di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

c) Il licenziamento affetto da vizi formali (art. 4).

I vizi formali tutelati sono due: l’omessa motivazione del recesso, in violazione di quanto prescritto dall’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966; la violazione degli oneri procedurali prescritti dall’articolo 7 della legge n. 300 del 1970 in materia di licenziamenti disciplinari.

Nei confronti dei rapporti di lavoro rientranti nell’ambito applicativo del decreto, infatti, giusta la previsione dell’ultimo comma dell’art. 3, non trova applicazione l’onere del preventivo tentativo di conciliazione, prodromico all’irrogazione del licenziamento per g.m.o., ai sensi dell’art. 7, L. n. 604/1966.

La violazione formale dell’atto risolutivo del rapporto di lavoro viene tutelata sulla base di quanto prescritto dall’art. 18, comma 6, L. n. 300/1970, anche se nel decreto vengono determinate le modalità di quantificazione dell’indennità.

L’art. 4 dell’articolato dispone che detta indennità sia di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.

Resta intesa l’applicazione dell’ordinaria tutela nelle ipotesi in cui, unitamente al vizio formale, il lavoratore dovesse contestare il recesso per ragioni sostanziali e, quindi, invocare l’applicazione dell’art. 3 del decreto.

 

L’indennità sostitutiva della reintegrazione

Riproponendo il contenuto dell’art. 18, commi 3 e 4 St. Lav., il decreto prevede che in tutti i casi nei quali è disposta la reintegrazione, al lavoratore è data la facoltà di optare per la c.d. indennità sostitutiva, pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

 

Il computo dell’anzianità lavorativa (artt. 7 e 8)

Il fulcro dell’impostazione fatta propria dallo schema di decreto in commento è di garantire una maggiore tutela, sempre di tipo economico, ai lavoratori titolari di una più elevata anzianità lavorativa, entro, comunque, un massimale determinato (salvo le particolari ipotesi in cui scatta il diritto alla reintegrazione, il quale esula da ogni valutazione connessa all’anzianità del dipendente).

Le modalità con le quali procedere alla determinazione dell’anzianità lavorativa sono individuate dagli artt. 7 e 8 del decreto.

L’art. 8 prescrive che la determinazione delle indennità previste in ipotesi di illegittimità del recesso siano riproporzionati per le frazioni di anno d’anzianità di servizio e che le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.

L’art. 7, invece, garantisce il mantenimento di quella che potrebbe essere definita l’anzianità convenzionale nell’esecuzione dei contratti di appalto, precedendo che l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa che subentra nell’appalto si computa tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

 

L’offerta di conciliazione (art. 6)

Il decreto, all’art. 6, prevede la possibilità per il datore di lavoro di attivare, entro il termine di giorni 60 dall’irrogazione del licenziamento (coincidente con il termine di impugnazione giudiziale) una procedura conciliativa al fine di evitare l’instaurazione del giudizio relativo alla contestazione del licenziamento medesimo.

L’offerta conciliativa può proporsi dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro, in sede sindacale, presso una sede di certificazione, individuata dall’art. 76, d.lgs. n. 276/2003, le quali sono competenti, giusto il disposto dell’art. 2 del decreto medesimo, a certificare le rinunzie e transazioni di cui all'articolo 2113 c.c., a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse.

Ai sensi della norma in esame, attraverso l’offerta di conciliazione il datore di lavoro pone a disposizione del lavoratore, mediante consegna di un assegno circolare, una somma pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità.

La norma pare inderogabile solo rispetto alla somma minima oggetto dell’offerta.

Infatti, il legislatore non può certo irrogarsi l’onere di limitare l’iniziativa economica privata, condizionando l’eventuale disponibilità del datore di lavoro ad offrire al lavoratore una somma, anche superiore alle 18 mensilità, per chiudere la vertenza.

Del resto, come è noto agli operatori, in sede conciliativa, spesse volte, l’oggetto del contendere non attiene solamente ad un aspetto del rapporto di lavoro, avendo piuttosto a riguardo una serie di rivendicazioni e contestazioni rispetto alle quali viene offerta una somma a titolo transattivo a saldo e stralcio di ogni ulteriore domanda riconducibile all’intercorso rapporto di lavoro.

Simile impostazione pare corroborata dal fatto che lo stesso articolo in commento pare limitare la predetta quantificazione solo ai fini dell’imputazione fiscale e contributiva della medesima.

Infatti, la somma, qualora rientrante nei limiti voluti dal decreto, non viene considerata come reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettata a contribuzione previdenziale (salvo comprendere cosa accadrà qualora il beneficio fiscale dovesse eccedere l’onere a carico dello Stato, quantificato, sempre nella norma in commento, nella somma di due milioni di euro per l’anno 2015, settemilionienovecentomila euro per il 2016 e tredicimilionieottocentomila euro per il 2017).

Rilevante appare soprattutto la prima delle due disposizioni, la quale equipara la somma oggetto dell’offerta ad un risarcimento del danno.

Infatti, l’esclusione della contribuzione previdenziale è già oggi vigente rispetto alle somme riconosciute e qualificate come incentivazione all’esodo od integrazione del TFR, così come previsto dall’art. 12, lett. a) e b), L. n. 153/1969.

L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

 

Il licenziamento collettivo (art. 10)

Il decreto introduce una nuova forma di tutela nell’ambito del licenziamento collettivo, di cui agli artt. 4 e 24, L. n. 223/1991.

Il nuovo regime sanzionatorio, anche in questo caso da intendersi riferito ai soli neoassunti, appare sfavorevole rispetto all’attuale sistema (in vigore successivamente all’emanazione della L. n. 92/2012) in quanto, dal punto di vista prettamente sostanziale del licenziamento, limita il diritto alla reintegrazione alle sole ipotesi in cui il licenziamento risulti carente della forma scritta (ipotesi, sostanzialmente, assai remota, considerata la procedimentalizzazione di simile recesso).

La violazione del criterio di scelta (tutelata, oggi, con la reintegrazione ad indennità limitata) comporta l’applicazione dell’art. 3, comma 1, del decreto e, quindi, la semplice tutela indennitaria.

Dal punto di vista della violazione formale, la disposizione in esame afferma che “In caso di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 2 del presente decreto. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12 ... si applica il regime di cui all'articolo 3, comma 1”.

La norma in commento, per le modalità con cui è formulata, ingenera confusione, non essendo chiaro il riferimento all’omessa forma scritta del licenziamento, vizio, questo, in presenza del quale il recesso viene tutelato con la reintegrazione nel posto di lavoro.

Si può ritenere, al fine di stemperare la portata della tutela, che il riferimento alla forma scritta riguardi la comunicazione (ai sensi dell’art. 4, comma 9, L. n. 223/1991) del recesso formulata al lavoratore coinvolto nella procedura di riduzione di personale (la norma, infatti, fa esplicito riferimento all’intimazione del licenziamento senza la forma scritta).

Accogliendo simile impostazione non si fa altro che confermare un principio sotteso allo stesso ordinamento, relativo all’inefficacia-inesistenza, dell’atto risolutorio intimato in forma orale.

Diversamente, invece, si può ritenere che il riferimento alla forma scritta abbia a riguardo la comunicazione inviata alle OO.SS. ai sensi dell’art. 4, comma 2, L. n. 223/1991, i cui vizi formali, giusto il disposto dell’art. 4, comma 12, ultima parte, L. n. 223/1991 “possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell'ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo”.

L’art. 10 del decreto in esame, infatti, sanziona con la tutela indennitaria la violazione delle procedure richiamate nell’art. 4, comma 12, della L. n. 223/1991, ai sensi del quale: “Le comunicazioni di cui al comma 9 sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l'osservanza della forma scritta e delle procedure previste dal presente articolo”.

Il comma 9, a sua volta, dispone che: “Raggiunto l'accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l'impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso. Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi, l'elenco dei lavoratori licenziati con l'indicazione per ciascun soggetto del nominati del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento dell'età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, deve essere comunicato per iscritto all'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2”

Rispetto a tutte queste comunicazioni, si può ritenere che l’unica rispetto alla quale è obbligatoria la formalizzazione per iscritto sia quella contenente l’intimazione del recesso al singolo lavoratore.

Diversamente, i vizi relativi: a) all’erroneo confezionamento delle comunicazioni, b) all’eventuale omissione delle medesime (tranne della comunicazione contenente il recesso); c) al mancato rispetto dei termini previsti per il relativo invio, vengono oggi considerati presupposti per la declaratoria di semplice illegittimità dell’atto, come, del resto, la violazione della procedura sindacale prescritta e regolamentata dai commi 6,7,8 dell’art. 4, L. n. 223/1991.

 

Il contratto di ricollocazione (art. 11)

Il decreto, all’art. 11, prevede che il lavoratore licenziato abbia diritto di ricevere dal Centro per l’impiego territorialmente competente un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione.

Il rilascio del voucher presuppone l’espletamento della procedura di definizione del profilo personale di occupabilità che deve essere regolamentata, mediante decreto legislativo., in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183.

Il voucher va presentato ad una agenzia per il lavoro pubblica o privata accreditata, con cui il lavoratore ha diritto a sottoscrivere il contratto di ricollocazione.

Detto contratto prevede: il diritto all’assistenza diretta alla ricerca di una nuova occupazione; il diritto alla riqualificazione o all’addestramento.

 

Il Rito applicabile (art. 12)

Il decreto, inspiegabilmente, esclude i licenziamenti oggetto della riforma dall’applicazione del c.d. Rito Fornero, di cui ai commi 48-68, dell’articolo 1 della legge n. 92 del 2012.

Questa scelta, inevitabilmente, ingenera un’ulteriore disparità di trattamento in capo ai soggetti destinatari della riforma.

La discutibilità dell’opzione legislativa discende, infatti, dalla circostanza che in capo ai lavoratori in questione (tranne a quelli dipendenti della c.d. Piccole Imprese), permane il diritto alla reintegrazione, seppure in ipotesi residuali (nelle quali è compreso anche il licenziamento discriminatorio).

Non si comprende, pertanto, la ragione per cui la medesima, potenziale, tutela, debba essere percorribile mediante il ricorso a due diversi riti processuali, di cui solo uno, quello non applicabile al caso di specie, garantisce tempi rapidi di definizione del giudizio.

Accadrà, pertanto, che un ricorso collettivo, avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento individuale plurimo o di un licenziamento collettivo, non sarà ammissibile per tutti i lavoratori coinvolti, qualora parte di questi sia stata assunta successivamente all’entrata in vigore del decreto.

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